27 novembre 2006

La Settimana Santa in Valdantena

Presentiamo un ricordo relativo ad un momento significativo dell'anno liturgico, la Settimana Santa, così come questa era vissuta negli anni Trenta-Quaranta del secolo scorso. Questo contributo è stato pubblicato sul numero 2006 della rivista "Studi lunigianesi", edita dall'Associazione Culturale per le ricerche storiche ed etnografiche sulla Lunigiana "Manfredo Giuliani". La rivista, pubblicata da diversi anni, ed il Museo Etnografico di Villafranca Lunigiana rivestono un ruolo di grande importanza per chi intende avvicinarsi allo studio del territorio lunigianese, della sua storia e delle sue tradizioni.


Già durante la Quaresima, nelle famiglie ci si preparava per i riti cristiani della Settimana Santa e della Pasqua. La parrocchia di Valdantena è alquanto disagiata per la distanza che vi è fra alcuni paesi e la chiesa; nonostante questo la partecipazione alla Via Crucis era molto sentita, come pure alla sera, durante la recita del Rosario non si trascurava di aggiungere una preghiera per le cinque piaghe di Gesù e per i sette dolori della Madonna.
La Domenica delle Palme il Parroco bussava per tre volte alla porta della chiesa ed all’interno lo ricevevano i fedeli che lo accompagnavano all’altare con inni di gioia, acclamando “Osanna al Figlio di David” e tenendo fra le mani ramoscelli di ulivo. Con questa cerimonia si voleva ricordare l’ingresso trionfante di Gesù in Gerusalemme. Il pomeriggio della domenica dopo i Vespri e una parte del lunedì erano riservati alle confessioni e comunioni. Il Sacerdote era coadiuvato dai confratelli provenienti dalle parrocchie vicine.
Il Mercoledì in mattinata i fabbricieri preparavano il “Sepolcro” aiutati anch
e da alcune donne della parrocchia, le quali già durante la Quaresima avevano seminato in diversi vasi le veccie, il frumento e l’orzo. Quindi li lasciavano crescere al buio, affinché le piantine prendessero un colore innaturale, quasi bianco. Ai lati del Sepolcro ponevano due piante di ginepro abbellite con tante roselline di carta di vari colori. Non era ricco di tanti fiori pregiati come ai giorni attuali, ma pur sempre preparato con tanta dedizione ed amore.
Il Mercoledì pomeriggio iniziavano i riti, ai quali i fedeli erano richiamati dal suono delle campane, non ancora messe a tacere in segno di mestizia.
Al mattino del Giovedì Santo molti fedeli si recavano a Pontremoli per assistere, durante la Messa Crismale, alla consacrazione degli Oli ed al lavanda dei piedi. Vi si recava pure un fabbriciere, che prendeva in custodia le preziose ampolle con gli Oli Santi, da consegnare al Parroco. Secondo la liturgia di allora, il Giovedì iniziava la rievocazione della crocifissione e della morte di Gesù. Le campane in segno di mestizia non facevano più sentire la loro voce (venivano legate); per richiamare la gente alla chiesa veniva usata o una grossa conchiglia, soffiando nella quale si emetteva un suono che si poteva udire anche da lontano, o il “graclòn”, cioè una grossa raganella in dotazione alla parrocchia e che veniva adoperata soltanto durante la Settimana Santa.
Verso le 17.30 iniziava la funzione con il canto del Passio, per il quale i cantori si dividevano le parti. Su di un candeliere a triangolo situato vicino all’altare vi erano delle candele accese ed alla fine di ogni salmo o di una parte degli Atti degli Apostoli ne veniva spenta una. Spenta anche l’ultima si “batteva Pilato”, cioè iniziava una gran confusione - per sottolineare la condanna di Gesù e la sua crocifissione - accompagnata dal gracchiare delle raganelle (gracle), che tanti ragazzi si erano costruiti durante la Quaresima. Subito dopo il Parroco scendeva dall’altare maggiore fino al Sepolcro per deporvi l’Ostia consacrata, che lì sarebbe rimasta per tutto il Venerdì e fino alla tarda mattinata del Sabato.
Il Venerdì Santo era doveroso rispettare l’antica tradizione del digiuno e cibarsi di vivande senza carne, uova o latticini. A mezzogiorno si mangiava baccalà o verdura conditi con poco olio; alla sera la “minestra da magro”, preparata con porri, fagioli, funghi secchi e taglierini fatti in casa.
Di buon mattino ci si recava in parrocchia per la visita al Sepolcro e, per acquistare l’indulgenza, si usciva ed entrava in chiesa per sette volte ripetendo le preghiere tradizionali. Al termine della funzione religiosa ci si toglieva le scarpe e, procedendo in ginocchio, si raggiungeva l’altare per adorare una croce spoglia posta ai suoi piedi. Nello stesso giorno alcuni uomini della parrocchia, avendo indossato il camice e reggendo a vicenda una croce, si incamminavano pregando lungo le antiche strade per visitare le sette chiese della vallata: Casalina, Pracchiola, Gravagna S. Bartolomeo, Gravagna S. Rocco, Cavezzana d’Antena, Montelungo, Cargalla e - da qui - di nuovo a Casalina. Venivano chiamati “penitenti” o “battenti” e la loro non era una camminata da poco, perché percorrevano diversi chilometri. Lungo la strada si incrociavano con penitenti di altre parrocchie che facevano il cammino inverso.
Assai commovente era la funzione della sera. Tanta gente accorreva anche dai paesi vicini; come la sera prima i cantori si alternavano recitando il Passio. Spenta l’ultima candela di nuovo si “batteva Pilato”. Sopra la porta della canonica vi era un grande pulpito in legno, verso il quale era rivolta l’attenzione di tutti, in attesa del predicatore invitato per l’occasione. Quando questo aveva tenuto l’omelia con i passi salienti della Passione e Morte di Gesù, si era ormai fatto buio ed iniziava la grande processione del Venerdì Santo, con le statue del Cristo Morto e della Madonna Addolorata. Lungo il percorso della processione vi erano dei lumini accesi, ma erano suggestive soprattutto le luci delle case dei paesi vicini lasciate appositamente accese. Il chiarore delle torce, il fumo acre che queste sprigionavano, il canto del Miserere e di altre preghiere mettevano nel cuore una struggente tristezza.
Il Sabato Santo, secondo un’antica usanza, il fuoco veniva acceso sul sagrato utilizzando un acciarino. Entrati in chiesa iniziava la preparazione per la benedizione dell’Acqua Santa, che poi sarebbe rimasta a disposizione per la parrocchia e per le famiglie che l’attingevano per portarla a casa in segno di fede. Iniziava subito dopo la S. Messa ed al Gloria le campane di tutta la vallata suonavano a distesa. Il Parroco toglieva dal Sepolcro l’Ostia consacrata e la riportava processionalmente sull’altare maggiore, lasciando la porticina del tabernacolo del Sepolcro aperta. Cristo era risorto! Chi era rimasto a casa correva alla fonte per bagnarsi gli occhi. Nei vasi già predisposti si seminavano il basilico ed altre qualità di semenze. Dopo cena era la gioia dei ragazzi che con tanta cura si erano preparati un’erba speciale. Questa, essiccata e ben triturata, veniva messa in pentola assieme alle uova che, fatte bollire, riuscivano di un bel rosso brillante. Le famiglie più agiate ai figli maschi ne davano anche una decina (meno alla ragazze!), comunque non vi era famiglia nella quale al sabato sera non si provvedesse alla tradizionale tintura delle uova.
Il giorno di Pasqua, non più Passio, non più mestizia. Tutti gli altari, che nei giorni precedenti erano spogli, venivano adornati di fiori. Il Sepolcro è stato smontato. E’ primavera. Sembra che anche la natura si inchini all’esultanza della Chiesa. Il parroco indossa i paramenti più belli. La Messa è solenne.
Durante il giorno i ragazzi giocano a “cocetta” con l’avversario, litigandosi le uova che vincono battendole contro le altre dal guscio più fragile. Dopo i vespri era consuetudine recarsi nei campi a raccogliere il tenero radicchio, che a sera veniva consumato in famiglia come contorno alle uova sode.
Celide
Nella foto: Casalina, dove è la chiesa parrocchiale di Valdantena

5 novembre 2006

La famiglia Lisoni nel 1905


Nei primi anni del Secolo XX la fotografia era una cosa seria. Gli scatti non venivano assolutamente sprecati ed i ritratti di famiglia erano legati ad occasioni speciali. Negli archivi familiari non mancano immagini suggestive, spesso legate all'emigrazione oltre Oceano (ed allora ecco comparire fotogrefie con persone impettite, che fissano l'obiettivo, spesso vestite con abiti presi a nolo per l'occasione o, in qualche altro caso - più raro - intenti a svolgere il loro lavoro). In questa occasione mi piace presentare la famiglia Lisoni ritratta sulla "loggia" della casa di Toplecca Inferiore. Una foto che non avrebbe nulla di strano, se non vi fosse, anche una morta: Anna Maria Luigia Caffoni (più conosciuta come Luigia), adagiata sul letto e portata all'aperto perché potesse essere ritratta assieme ai suoi familiari in lutto.
Luigia Caffoni, nata nel 1824, era la seconda moglie di Giovanni Maria Lisoni e morì a Toplecca Inferiore il 22 aprile 1905 (è così possibile datare la fotografia). Il marito era discendente di una famiglia di Valdantena (presente, oltre che a Toplecca, anche a Versola, Casalina, Previdè e Groppodalosio nel secondo Ottocento), che con diverse vicissitudini si era trasferita nel Parmense e nel Piacentino, per poi ritornare al paese di origine. Giovanni Maria (1810-1871) si era sposato con la Caffoni (in seconde nozze, dopo essere rimasto vedovo di Veneranda Orioli) e da lei aveva avuto undici figli: Maria Maddalena Petronilla (1853-1928), Lorenzo (1857-1886), Maria Fortunata (1862-1911), Ignazio Bartolomeo (1864-1951), Ottavio (1865-1938), Colomba Assunta (1868-1955), Sante (emigrato in Cile), Giovanni Battista e Marco. Dalla prima moglie aveva avuto due figli: Vincenzo Bernardo (1843-1923) e Ferdinando (1845-1928).
Interessante notare l'atteggiamento compunto di tutta la famiglia, del tutto intonato alle caratteristiche della situazione.