Logarghena, 2 agosto 1927
Chi sale a Logarghena ha, oggi, come punto privilegiato di riferimento, il “monumento” (un tronco di marmo, che ricorda un albero spezzato) collocato proprio sul crinale, presso una cappellina con, all’interno, un'immagine della Madonna.
Quel monumento nel 2002 è stato restaurato, così come la cappellina, a cura dei familiari di quattro giovani di Valdantena che, proprio in Logarghena, agli inizi dell’agosto 1927, avevano lasciato la vita per "l'esplosione di un proiettile”.
Un fatto inspiegabile per molti, che si domandano come ciò sia potuto accadere in un luogo che non era mai prima stato teatro di guerra (lo sarebbe stato, ma quindici anni più tardi…), e che, anzi, già in quegli anni, era conosciuto come la sede di uno degli appuntamenti più amati da chi gode delle bellezze delle nostre montagne: la “Festa delle giunchiglie” fin da allora richiamava gente dalla Lunigiana, dallo Spezzino e dal Parmense..
Erano circa le 11 del 2 agosto 1927 quando un sordo boato squassò la pace di tutta la vallata. Si consumò, così, in un attimo la tragedia di quattro ragazzi. che assieme a due amici, avevano trovato in un prato, poco discosto dal luogo dove oggi sorge il monumento, un proiettile di cannone rimasto inesploso dopo che erano state effettuate in zona le esercitazioni militari del 7° Reggimento di Artiglieria da Campagna.
I soldati avevano piazzato i loro cannoni lungo la Statale della Cisa, presso il Badalucco, e da lì, nei giorni precedenti, avevano sparato su Logarghena. In quei giorni la frazione di Toplecca (da dove provenivano tre dei giovani morti; l’altro era di Casalina) era stata evacuata, ma, poi, terminata l’esercitazione, tutto era ritornato alla normalità, così che Valentino Botti Gaulli (di 23 anni), Alfredo Lisoni (di 16 anni), Giovanni Piagneri (di 13 anni) ed Attilio Romei (di 14 anni), assieme a Pietro Piagneri e Pietro Belforti; erano tornati ai loro monti, così come altri, per condurre le mucche al consueto pascolo. Il ritrovare il proiettile, il guardarlo, muoverlo e, forse, percuoterlo con la punta di un pennato per verificarne la consistenza (così testimoniarono i due superstiti, dei quali uno, Pietro Piagneri, poi fattosi sacerdote, per moltissimi anni ogni 2 agosto si è recato in Logarghena a celebrare una S. Messa ed a pregare per ricordare i propri amici) fu un tragico gioco.
Lino Piagneri, che fu tra i primi ad accorrere assieme ad un carbonaio, che lavorava poco distante, non poté far altro che caricarsi sulle spalle il Belforti (lo stesso fece il carbonaio con Pietro Piagneri), fermarsi a lavargli le ferite e correre verso il paese. A tutti coloro che incontrava ripeteva di non correre, perché, per chi era ancora lassù, non vi era più nulla da fare. Vi erano soltanto, poco lontano, alcune ragazze che piangevano disperatamente. La morte dei quattro ragazzi era stata istantanea. I referti stilati dal Dott. Pio Bertolini, medico condono a Molinello, citano, come cause del decesso, per Valentino Botti Gaulli la “asportazione del capo”, per Alfredo Lisoni una "ferita penetrante nella regione cardiaca", per Attilio Romei una "ferita all'arco dell'aorta" e per Giovanni Piagneri "tre ferite per traumi nella regione cardiaca”. Il parroco di Valdantena, don Giuseppe Gaverini, nel registro dei Morti, dove annota che il decesso era avvenuto “ob mortem improvvisam explosionis proietti causa loco Prati di Logarghena hora decima prima ante meridiem”, scrive, accanto al nome di Valentino Botti Gaulli: “Della medesima morte sono deceduti anche i tre seguenti. Strazio indicibile dai Prati di Logarghena portare al Cimitero 4 poveri giovani. Appena saputa la notizia mi sono recato sul posto, ma erano morti all’istante. Domine, dele iniquitates eorum”.
Sono trascorsi ottanta anni da quel tragico due agosto ed ormai i ricordi diretti vanno scemando. Ma ancora si sentono narrare dagli anziani di inutili raccomandazioni di prudenza ai giovani che salivano a Logarghena: “attenti a cosa trovate” (c’era stato anche un uomo che aveva cercato di fermare i sei giovani decisi a salire là dove quattro di loro avrebbero poco dopo incontrato la morte), di “miracoli” per altri fortunosamente sfuggiti ad analoga sorte “avevamo maledetto quella donna che ci aveva impedito di salire a Logarghena – era solito raccontare il componente di un altro gruppetto costretto a recedere dal salire al monte - ed invece ci accorgemmo che era stato, il suo, un intervento provvidenziale”. O, invece, la vicenda di Alfredo Lisoni che quel giorno sarebbe dovuto scendere con la mamma a Pontremoli, per il “Perdono di Assisi” e per l’acquisto di un nuovo paio di scarpe. Ma poi cambiò idea e, così, per l’ultima volta, egli salì a Logarghena.
Quando sui prati si consumò la tragedia, da pochi anni l’Italia era caduta sotto il regime fascista, l’idea di un Bel Paese da trasformare in potenza militare era forte e non poteva essere certo un deplorevole incidente a fermare il sistema. Quando, pochi giorni dopo, le esercitazioni militari ebbero termine, agli Ufficiali del Settimo Artiglieria venne offerto un sontuoso rinfresco a spese della Municipalità Pontremolese. Negli atti di quei giorni, neppure una parola su quanto era accaduto. Anzi. Non furono poche le minacce, neppure troppo velate, che vennero fatte nei confronti di un padre che chiedeva giustizia e che fu fermamente invitato a starsene calmo, per evitare guai peggiori. Ammesso che vi potessero essere guai peggiori della morte di un figlio per un pascolo lasciato privo di bonifica dopo un’esercitazione di tiro…
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